Riforma costituzionale, le ragioni del No | Intervista a Ugo De Siervo
Ugo De Siervo, ex presidente della Corte Costituzionale, in un’intervista a Giurisprudenza penale, spiega le ragioni del No alla riforma costituzionale del governo Renzi.
Il nuovo Senato della Repubblica
“Il testo di revisione costituzionale non abolisce il Senato, ma tenta assai confusamente di configurarlo come Camera rappresentativa delle autonomie territoriali: ma non solo i 5 Senatori di nomina presidenziale e gli ex Presidenti della Repubblica sono del tutto estranei a questa
caratterizzazione, ma i 74 Consiglieri regionali ed i 21 Sindaci che ne dovrebbero far parte non sono eletti dalle popolazioni interessate, né hanno particolari qualificazioni. Dovrebbero, invece, essere semplicemente scelti dai diversi Consigli regionali proporzionalmente ai diversi gruppi: si conferma così la discutibile tendenza alla formazione di organi politici di secondo livello (si pensi agli organi delle Città metropolitane e delle ex Province), che certo riduce non poco i poteri di influenza del corpo elettorale. Per di più i 95 Senatori nominati dai Consigli regionali dovrebbero continuare ad operare come Consiglieri regionali o Sindaci, così potendo dedicare solo modesti ritagli di tempo alle attività del Senato.
Ma soprattutto contrasta radicalmente con la qualificazione di organo rappresentativo delle autonomie il fatto che nel testo della riforma sono escluse funzioni decisorie del nuovo Senato riguardo alle tante scelte legislative che il Parlamento dovrà fare in relazione ai poteri delle Regioni, mentre si attribuiscono al Senato alcune materie legislative paritariamente alla Camera e si prevedono ampi poteri di controllo (ma il Senato è escluso dal circuito fiduciario!). Il nuovo Senato, infatti, non dà la fiducia al Governo, ma qualche delicato problema potrebbe sorgere dinanzi ad un suo dissenso relativo alle materie legislative che gli vengono riconosciute pienamente: basti pensare al fatto che dovrebbe adottare la legge di autorizzazione alla ratifica di nuovi Trattati europei”.
Il nuovo procedimento legislativo
“Il procedimento legislativo nazionale viene straordinariamente peggiorato: ciò perché nelle molte e diverse materie nelle quali il Senato può o deve (in qualche caso) intervenire nel procedimento legislativo senza poteri decisori, ma solo sostanzialmente consultivi, spesso non sono affatto chiari i termini del rapporto fra Camera e Senato nei diversi casi, con il rischio realistico che sorgano conflitti di attribuzione fra le due Camere, o di costituzionalità fra Regioni e Stato o fra interessati e Stato. Quanto poi alle ridotte materie nelle quali il Senato mantiene un potere legislativo pieno, nel caso in cui si operi in ambiti materiali ricadenti dentro e fuori queste materie, si sarà addirittura obbligati a cercare di porre in essere due distinti disegni di legge, tra loro paralleli ed interdipendenti.
L’introduzione della possibilità di un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali da una parte può essere opportuno, ma dall’altra accentua molto il rischio di politicizzazione della Corte costituzionale, chiamata ad intervenire nel caldo di una fortissima polemica politica su una legge mai applicata. Inoltre vi potrebbe essere il rischio di un’imbarazzante successiva impugnativa della legge, che fosse uscita esente dal giudizio preventivo.
Il condivisibile tentativo di rivitalizzare gli istituti di democrazia diretta ha prodotto alcune innovazioni di non particolare consistenza ma comunque interessanti. Paradossale è, invece, che il nuovo quarto comma dell’art. 70 parli addirittura del tema (davvero arduo e difficile) dei “referendum popolari propositivi e di indirizzo”, ma solo per rinviarne l’eventuale disciplina ad una futura legge costituzionale”.
La riforma del Titolo V
“Al di là della pacifica abolizione del CNEL e delle Province, le innovazioni relative al nostro regionalismo contenute nel testo di revisione costituzionale sono fortemente innovative e nel complesso molto discutibili.
Si approfitta, infatti, di alcuni seri difetti del Titolo V, che finora sono stati in realtà largamente contenuti dall’ampia giurisprudenza costituzionale in materia, per modificare in radice il nostro ordinamento regionale, quale configurato fino dal 1948. Andando enormemente al di là della correzione degli errori della riforma del 2001 e sulla base di un vero e proprio “falso giuridico” e cioè dell’affermata necessità di eliminare la potestà legislativa concorrente, si procede ad una sistematica eliminazione dei poteri legislativi delle Regioni in quasi tutte le
materie finora di loro competenza.
In tal modo, si procede, in realtà, ad una drastica riduzione dell’autonomia delle quindici Regioni ordinarie a solo quella amministrativa, nella misura in cui il legislatore nazionale lo riterrà opportuno e sostanzialmente senza vincoli oggettivi (le “disposizioni generali e comuni” appaiono liberamente configurabili dal legislatore nazionale). Ciò mentre le cinque Regioni ad autonomia speciale restano estranee a tutto ciò (perfino alla clausola di supremazia!) e vedono mantenuti tutti i loro attuali poteri e privilegi, anzi accresciuti dall’incredibile previsione che le future modificazioni dei loro ordinamenti sarà possibile solo d’intesa con la Regione o la Provincia interessata.
Così, senza alcuna discussione pubblica e contraddicendo quanto largamente auspicato sull’avvicinamento delle diverse autonomie regionali, si porrebbero le premesse per un nuovo”.
Perché votare No
“Di per sé le revisioni costituzionali possono essere opportune ove migliorino parti invecchiate o inadeguate della Costituzione, rispettandone però l’organicità e le linee di fondo. Ma è inaccettabile inserire innovazioni inadeguate, errate o che addirittura possano contraddire alcune caratteristiche del patto costituzionale.
Purtroppo, invece, nell’attuale testo di revisione a poche innovazioni condivisibili, corrispondono alcune scelte inaccettabili: la strana composizione del nuovo Senato e le sue funzioni che non tutelano le Regioni ma complicano confusamente le procedure legislative nazionali; la drastica riduzione dei poteri legislativi (e quindi anche amministrativi) delle Regioni ad autonomia ordinaria, mentre le tanto discusse Regioni speciali escono rafforzate dalla riforma; l’indebolimento di fondamentali organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale; la prospettiva che ci si avvii alla ricostruzione di uno Stato fondamentalmente accentrato, con perfino una conseguente trasformazione di alcuni grandi diritti sociali (diritto all’autogoverno locale, diritto alla salute, all’assistenza sociale).
Ma poi l’inammissibile ulteriore divaricazione fra Regioni ordinarie e speciali rischia di tradursi in un irragionevole diverso trattamento fra i cittadini residenti nelle diverse aree territoriali, con anche il rischio di accentuare pericolosamente le contrapposizioni presenti nella nostra società”.
Lorenzo Piazzi
Categories: Segnalazioni
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