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La riforma del Titolo V non è né moderna né efficiente | Enzo Di Salvatore

Secondo il costituzionalista Enzo Di Salvatore, schierato per il No al referendum, la riforma del Titolo V segna un accentramento di poteri nelle relazioni tra Stato e Regioni, che potrebbe non porre fine ai conflitti di competenze e rischia di far saltare il principio collaborativo tra gli enti territoriali: «la riforma non è moderna e neppure efficiente: essa non offre soluzioni adeguate ai problemi del regionalismo. Meglio sarebbe stato riorganizzare il sistema in Macroregioni e ripensare il tema dell’asimmetria, e cioè della diversificazione delle funzioni sulla base di comuni esigenze».

“La riforma fa piazza pulita di ogni idea federalista e colpisce al cuore la tradizione regionalista italiana, imprimendo al sistema delle relazioni tra lo Stato e gli enti territoriali una svolta centralista. Sarebbe questa la modernità? È come se qualcuno ci proponesse di tornare allo Statuto albertino: a chi verrebbe in mente di sostenere che in questo caso l’Italia sarebbe più moderna? Si dirà che il ritorno al vecchio sia, però, giustificato dalla necessità di conferire al sistema velocità ed efficienza. Magari sacrificando la democrazia territoriale. Ma questo è ancora da verificare.

Con la riforma si riscrive l’art. 117 della Costituzione e si cancella l’attuale potestà legislativa “concorrente”, in base alla quale lo Stato è competente a formulare i principi fondamentali della materia e la Regione è competente a varare la normativa di dettaglio. Detto diversamente: per molte materie, la Costituzione dice oggi che lo Stato e le Regioni fanno le leggi assieme. La riforma individua una soluzione diversa: lo Stato è competente in via esclusiva su alcune materie (espressamente elencate); le Regioni sono competenti per altre materie (espressamente elencate). E tutto quello che non è espressamente riservato alla competenza esclusiva dello Stato, spetta – almeno in via di principio – alle Regioni.

(…)

Non è vero che la riforma delinea in modo netto il confine tra l’ambito di competenza dello Stato e l’ambito di competenza delle Regioni. In molti casi questo confine è assolutamente confuso: si pensi, solo per fare un esempio, alla tutela della salute, che oggi è attribuita alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni e che domani, se entrerà in vigore la riforma, sarà affidata alla competenza esclusiva dello Stato. Ebbene, se si va a leggere il testo della riforma si scopre che sulla tutela della salute lo Stato è competente a legiferare solo in ordine alle “disposizioni generali e comuni”. Con la conseguenza che ciò che non sia riconducibile a “disposizioni” che siano “generali e comuni” spetterà alle Regioni.

Nella sostanza si tornerà alla competenza concorrente: e però a una competenza concorrente che sostituisce l’accoppiata “principi fondamentali/normativa di dettaglio” con l’accoppiata “disposizioni generali e comuni/disposizioni non generali e non comuni”. Un problema che non riguarderà solo la materia della tutela della salute, bensì molte altre materie o oggetti: le politiche sociali, la sicurezza alimentare, l’istruzione, la formazione professionale, le forme associative dei comuni (ma qui la riforma si esprime con la locuzione “disposizioni di principio”), le attività culturali, il turismo, il governo del territorio. Su tutto – sulla chiarezza che non c’è – non potrà che pronunciarsi la Corte costituzionale.

In alcuni casi, la competenza dello Stato e quella delle Regioni rischiano addirittura di sovrapporsi: si pensi al governo del territorio (di competenza dello Stato) e alla pianificazione del territorio regionale (di competenza delle Regioni; alle infrastrutture strategiche (di competenza dello Stato) e alla dotazione infrastrutturale (di competenza delle Regioni); alla tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici (di competenza dello Stato) e alla promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici (di competenza delle Regioni). E così via. Ebbene, anche in questi casi il vento della confusione dovrà essere fermato dalla Corte costituzionale.

La riforma introduce, poi, una “clausola di supremazia” (ma si tratta di una qualificazione impropria), con la quale si stabilisce che, su proposta del governo, il parlamento potrà esercitare la competenza legislativa in luogo delle Regioni, ossia “espropriare” una materia che la Costituzione attribuisce alle Regioni. Si badi: ogni materia, nessuna esclusa. Sia quelle espressamente elencate (come l’autonomia delle istituzioni scolastiche, i servizi scolastici, la valorizzazione e l’organizzazione regionale del turismo, la promozione dei beni ambientali, ecc.), sia quelle non espressamente elencate, ma implicitamente attribuite alle Regioni (come ad es. l’agricoltura). Quando sarà possibile “espropriare” la competenza delle Regioni? Lo dice il testo della riforma: “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica” o “l’interesse nazionale”.

È chiara questa previsione? No. Essa finisce per rimettere nelle mani del governo la decisione sul “se” sia opportuno che il parlamento intervenga (e fin qui niente di strano) e però persino la decisione sul “se” sussistano i presupposti richiesti dalla clausola (cioè: “se” occorra tutelare l’unità giuridica o economica della Repubblica oppure l’interesse nazionale), senza che possa opporsi alcunché: si tratta di “formule” politiche, non giuridiche, che rendono impossibile il sindacato della Corte costituzionale. In che modo, infatti, potrebbe essere dichiarata illegittima una legge del parlamento che interviene nella disciplina di una materia di competenza delle Regioni senza che effettivamente vi sia l’esigenza di garantire l’unità economica della Repubblica? D’altra parte, la riforma si ispira, in questo, all’art. 72 della Costituzione tedesca. E chi ha scritto il testo della riforma non può non sapere che in Germania, per più di quaranta anni, il parlamento nazionale ha attratto a sé molte materie di competenza dei Länder (gli Stati membri tedeschi), senza che questi riuscissero a opporre dinanzi alla Corte costituzionale alcunché: la Corte tedesca, infatti, ha per decenni sostenuto che l’intervento dello Stato poggiasse su presupposti di natura politica, in quanto tali non sindacabili. È per questa ragione che nel 1994 i tedeschi hanno deciso di cambiare la propria Costituzione: per garantire che la competenza degli Stati membri non fosse facilmente espropriata dal parlamento nazionale.

Ora, se entrerà in vigore la riforma, sarà ancora una volta la Corte costituzionale, a fronte del silenzio serbato sul punto dalla riforma, a dirci se il parlamento italiano sarà tenuto al rispetto di certune condizioni oppure no: ad esempio, se l’espropriazione della materia regionale dovrà essere motivata e contenuta entro quanto strettamente necessario a garantire la tutela dell’unità economica o giuridica ovvero dell’interesse nazionale. Ma si tratta di un evidente salto nel buio: nessuno al momento può sapere quello che accadrà. Resta comunque un paradosso: per molti casi, elencati dal nuovo art. 70 Cost., la riforma impone di ricorrere al procedimento legislativo “paritario”, e cioè chiede che la Camera e il Senato approvino la legge con gli stessi poteri; nel caso di cui si sta parlando, invece, al Senato – che dovrebbe rappresentare le istituzioni territoriali – è precluso di approvare la legge con gli stessi poteri della Camera dei deputati. Il che la dice lunga anche sull’effettiva capacità del Senato di rappresentare gli interessi territoriali (sebbene questo punto meriterebbe di essere trattato a parte).”

L’articolo completo sul sito dell’Huffington Post

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