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“Le mie ragioni per votare No” | Nicola Giannelli

Nicola Giannelli, docente di Scienza Politica all’università “Carlo Bo” di Urbino, spiega le ragioni per cui non è convinto dell’efficacia della riforma.

“Fare le riforme non è un bene in sé. Quando si avanza una riforma lo si fa perché si vuole migliorare la situazione rispetto alle condizioni di partenza. Una riforma è quindi come una terapia e perciò bisogna capire quale è la diagnosi e quali sono le cure proposte.
 

  • La ragione più comune a favore della riforma è quella dei tagli alle spese. Si tratta, secondo di una manciata di milioni (una cinquantina secondo la Corte dei Conti) su una spesa corrente di circa 500 miliardi al netto degli interessi, quindi circa lo 0,01%. Sappiamo bene che la fonte di spreco non sono gli stipendi dei parlamentari bensì le cattive politiche e le cattive decisioni. Però se proprio si voleva risparmiare bisognava eliminare del tutto la seconda camera spostando le centinaia di funzionari superpagati nella P.A. ma con stipendi normali (e non si dica che non si può fare).
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  • Riduzione del numero dei parlamentari. Bastava ridurre a metà il numero di membri della Camera e del Senato, come prevedeva la proposta del vicepresidente del Senato Chiti che aveva raccolto molte adesioni in Parlamento. Aggiungendo un dimezzamento anche delle indennità si sarebbero raggiunti risultati assai più rilevanti. Due camere più snelle, entrambe elette dai cittadini e con indennità più normali sarebbero più autorevoli. L’argomento che la proposta Boschi è meglio che niente non mi convince perchè quando si riforma una costituzione lo si deve fare con in mente un progetto di governo per il futuro e non “tanto per far qualcosa”.
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  • Accrescere l’efficienza del lavoro parlamentare. Si dovrebbe dimostrare che il Parlamento italiano produce meno leggi di quello di altri paesi. In realtà è vero il contrario. Abbiamo prodotto troppe leggi e troppo spesso fatte male. Ecco qualche dato comparativo sia pure non aggiornato, sulle leggi approvate dai parlamenti. E se qualcuno avesse contato il numero delle norme inserite nelle leggi-contenitore i numeri sarebbero più alti.
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    Fonte: Di Porto V. I numeri delle leggi. Un percorso tra le statistiche delle legislature repubblicane. Il Filangeri, Quaderno 2007, pp 179-200

    Fonte: Di Porto V. I numeri delle leggi. Un percorso tra le statistiche delle legislature repubblicane. Il Filangeri, Quaderno 2007, pp 179-200

    La quantità non fa qualità e il vero problema italiano è che il flusso continuo della legislazione è una continua correzione e aggiustamento di legislazione già approvata ma evidentemente carente. Non si può dare la colpa di ciò all’elevato numero dei parlamentari perché l’80% delle leggi approvate sono di iniziativa governativa. Questo secondo dato corrisponde ad un progressivo rafforzamento degli esecutivi rispetto alle camere legislative di cui ormai si parla in tutti i manuali di scienza politica e che è dovuto ai vincoli esterni, soprattutto derivanti dall’Unione Europea, che vengono tradotti in iniziativa legislativa governativa. Qualcuno obietta che il Parlamento ha facilità ad approvare leggi minori ma poi non riesce a far passare le riforme importanti. Questa affermazione contraddice l’evidenza secondo la quale ogni nuovo governo ha voluto fare le sue riforme anche quando non erano necessarie. Questo è stato possibile grazie all’uso frequente della questione di fiducia (il presente governo l’ha posta anche sull’approvazione della legge elettorale che dovrebbe essere una tipica prerogativa parlamentare) e della legislazione delegata al Governo. Il Governo Amato nel 1992 salvò l’Italia dalla bancarotta facendosi affidare le deleghe legislative per 5 grandi riforme. Da allora ne è stato fatto grande uso. Il tempo medio impiegato dai governi per emanare la legislazione delegata è molto alto. Se il tempo medio di approvazione parlamentare è sceso negli ultimi tre decenni da 130 a 80 giorni, i governi impiegano da un minimo di 1 fino a 3 o 4 anni per legiferare. E questo è dovuto al fatto che regolare cose complesse richiede tempo. Famoso è stato il caso della scadenza alla fine di agosto di questo anno per la quale il ministro Madia aveva un anno di tempo per la riforma della dirigenza pubblica e che è stata rispettata solo grazie all’intensa sollecitazione del premier. Due mesi prima Gian Antonio Stella scriveva sul Corriere “record di errori nel codice degli appalti” per il quale il governo si era dato due anni di tempo. Anche il Jobs Act è stato prodotto a rate, nell’arco di due anni, sulla base di una delega legislativa.

    La riforma della Costituzione prevede che il governo possa imporre alla Camera 70 giorni di tempo per legiferare su tutte le materie dichiarate “di attuazione del programma”. Mi sembra il classico caso nel quale la pezza è peggiore del buco. La fretta nel legiferare ha indotto migliaia di errori, leggi sbagliate e, come segnala Stella, perfino leggi delegate scritte male. Qualche mese fa il Sole24ore titolava in prima pagina: “85 modifiche alle imposte sui redditi negli ultimi 5 anni.” Tutti questi errori costano soldi, tempo e producono decisioni sbagliate. Salvo casi di calamità naturali o guerre, la legislazione dovrebbe essere ben studiata, ponderata, con una attenta valutazione dei costi e dei benefici, e poi adottata nella sua forma più semplice e chiara.

    La necessità di “rafforzare l’esecutivo” è dunque sentita da chi sta al governo perchè il potere non basta mai, ma non dai contribuenti per i quali si sente invece quella di migliorare la necessità, la proporzionalità e la pertinenza agli obiettivi delle misure adottate.”

    L’articolo completo sul blog dell’università “Carlo Bo” di Urbino

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