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Riforma Costituzionale, le ragioni del Sì | Intervista a Roberto Bin

Il sito Giurisprudenza Penale ha intervistato due costituzionalisti, Roberto Bin, Professore ordinario di diritto costituzionale, e Ugo De Siervo, Presidente emerito della Corte costituzionale, per esprimere rispettivamente le ragioni del Sì e del No alla riforma costituzionale.

Qui di seguito alcuni passaggi dell’intervista a Roberto Bin:

Il nuovo Senato della Repubblica

Che la sovranità appartenga al popolo non significa affatto che tutti i “poteri” debbano essere eletti dal popolo. Qualcuno davvero vorrebbe l’elezione diretta dei giudici o della Corte costituzionale? C’è un motivo per cui in tutti i paesi moderni uno dei due rami del parlamento non è direttamente eletto dal popolo, ma rappresenta i territori. È infatti logico che i soggetti che devono attuare le leggi, cioè le amministrazioni periferiche, vengano consultate nel processo di formazione delle leggi. Sinora in Italia ciò non è avvenuto e questo spiega almeno in parte l’enorme contenzioso tra Stato e Regioni: se il parlamento discute e approva una legge che poi intende imporre a Regioni e comuni senza neppure preoccuparsi di sapere se essi sono in grado di attuarla, è chiaro che la reazione sarà di rifiuto e ostilità. (…) In Germania (ma anche l’Unione europea ne ha accolto il modello) le leggi federali devono essere approvate, oltre che dal parlamento eletto, dal Bundesrat (in Europa dal Consiglio), in cui si riuniscono i presidenti o i ministri dei Länder: il sistema funziona bene, il contenzioso e minimo, i Länder per lo più preferiscono badare a formare una buona legge federale piuttosto che adottare una propria disciplina locale; e a nessuno è venuto in mente di considerare il Bundesrat un organo non rappresentativo. Rappresenta i territori e i loro interessi, e ciò basta. (…) La soluzione cui sono approdati non è sicuramente la migliore delle soluzioni possibili: ma, eliminando finalmente la stravaganza del bicameralismo perfetto, dischiude la porta per l’edificazione di un sistema efficiente.

In generale, come valuta questa nuova costruzione del procedimento di formazione delle leggi?

Molto positivamente. (…) La riforma di oggi elenca le 14 specifiche leggi che devono essere approvate da entrambe le Camere: sono leggi “di sistema” che vengono approvate raramente (leggi costituzionali, leggi su minoranze linguistiche e referendum, leggi su organi e funzioni fondamentali degli enti locali, leggi sulla partecipazione e attuazione politiche dell’UE, leggi sull’elezione dei senatori, ecc.). La cosa più importante è che queste leggi potranno essere modificate solo seguendo la stessa procedura bicamerale: sono cioè leggi “tipiche”. Non potrà più avvenire che nelle pieghe della legge finanziaria o di qualche decreto legge si cambino – per esempio – gli organi di governo o il sistema elettorale dei Comuni, si sopprimano le Province ecc.
Tutte le altre leggi saranno approvate solo dalla Camera: però, devono essere trasmesse al Senato, che può scegliere quelle su cui intende approfondire l’esame. Il Senato non può però paralizzare la Camera, perché ha trenta giorni di tempo per svolgere le sue valutazioni. Se queste si traducono in proposte di modifica, la Camera può anche riapprovare il testo della legge senza accoglierle (le varianti di cui accennavo in precedenza riguardano questi aspetti, modificando i tempi o rafforzando il ruolo del Senato in relazione ad alcune specifiche leggi). Come si vede non c’è alcuna confusione, nessuna caotica moltiplicazione dei procedimenti, nessun rischio di conflitto tra le Camere. Ma Regioni e Comuni possono in questo modo esprimere al Governo e alla Camera le loro perplessità prima che la legge completi il suo percorso; mentre oggi l’unico strumento che hanno è quello di opporsi dopo, quando la legge è già in vigore, impugnandola davanti alla Corte costituzionale.

Nello specifico, come giudica l’introduzione del preventivo giudizio di legittimità costituzionale delle leggi elettorali?

Risolve un grande problema, evitando che si ripeta lo sconquasso istituzionale provocato da una sentenza della Corte costituzionale che dichiari l’incostituzionalità della legge elettorale dopo che le elezioni politiche si sono svolte più volte: come è accaduto con il Porcellum.

Quali sono a suo avviso le ragioni che spingono a modificare gli strumenti di partecipazione diretta del cittadino alla formazione delle leggi? Sarebbe più agevole o più arduo farne uso concreto?

Il referendum abrogativo è diventato uno strumento spuntato, dato che la tendenza all’astensionismo ormai rende arduo il raggiungimento del quorum della maggioranza assoluta degli aventi diritto il voto. Se passa la riforma, resta ferma la disciplina attuale, ma si aggiunge una nuova possibilità: i referendum più importanti, per i quali si sia riusciti a raccogliere 800.000 firme (traguardo frequentemente raggiunto anche in passato), potranno svolgersi validamente se andrà alle urne metà più uno dei cittadini che hanno effettivamente votato nelle ultime elezioni politiche. Il che significa far calare il quorum dal 50% a non più del 30-35% degli elettori. Soprattutto a nessuno converrà più esortare gli elettori ad andare al mare, sperando così di sommare gli astensionisti ai contrari al referendum.
Quanto all’iniziativa legislativa popolare, che mai è stata seriamente presa in considerazione dalle camere in passato, si introduce qualche garanzia in più sul piano procedurale, che dovrà essere precisata dal regolamento della Camera. E si apre la porta del referendum propositivo, che però dovrà essere regolato da una legge costituzionale: porta pericolosissima perché offre agli elettori la possibilità di proporre e votare direttamente una legge.

La riforma del Titolo V: in generale, come cambierebbe l’organizzazione amministrativa dello Stato? Quale ruolo avrebbero le Regioni, considerando l’abolizione delle Province e della legislazione concorrente? Come valuta questi cambiamenti?

La soppressione del CNEL non cambia nulla, non avendo esso mai svolto una funzione di rilievo. Non molto cambia sul piano dell’organizzazione amministrativa: aver introdotto la trasparenza tra i principi che presiedono alla funzione amministrativa non mi sembra un fatto di un qualche rilievo. Togliere le province dall’elenco degli “enti necessari” (attuando quello che era stato a lungo l’indirizzo prevalente tra i costituenti) mi sembra sacrosanto e completa finalmente quanto si era goffamente cercato di fare in questi ultimi anni in via di legislazione ordinaria.

Anche l’abolizione delle materie concorrenti non cambia moltissimo l’attuale stato delle competenze regionali. Chi dice il contrario ignora (o fa finta di ignorare) quanto e come le “innovazioni” un po’ avventate della riforma costituzionale del 2001 (anche qui, come si vede, non si tocca affatto la “Costituzione dei nostri padri” ma una precedente riforma di quella costituzione) siano state modificate dalle centinaia di sentenze emanate dalla Corte costituzionale.
Infatti, la Corte costituzionale, materia dopo materia, ha riportato le competenze in capo allo Stato. Lo ha fatto inventando argomenti, dottrine, ipotesi interpretative, criteri di giudizio spesso astrusi e incomprensibili: ma lo ha già fatto. Per cui i vasi che oggi si vedono spostati da una scaffale all’altro erano da tempo vuoti. E rimettere un po’ di ordine consolidando il quadro delle competenze non è sbagliato. Anche in questo caso però la riforma non pone la parola fine, ma apre la porta all’innovazione. La riforma non solo mette ordine nelle competenze, consolidando quello che la giurisprudenza ha già detto, ma introduce novità che possono far mettere da parte le prassi consolidate in anni di gestione burocratica dei rapporti tra Stato e Regioni, ambito in cui la politica è stata a lungo latitante. Non possiamo sapere se gli sviluppi futuri saranno tutti positivi o se la scarsa intelligenza dei protagonisti politici lascerà ancora campo libero agli apparati burocratici, sempre pronti a bloccare ogni apertura. Ma anche qui parliamo delle possibilità di un futuro migliore, a cui non avremmo accesso se la riforma verrà bocciata.

(…)

Perché votare Sì?

Per una semplice ragione: se passa la riforma si apre la porta al futuro, altrimenti quella porta resta chiusa. Il sistema istituzionale di oggi è bloccato, il nostro attuale bicameralismo ha mostrato con chiarezza tutta la sua inefficienza (lo stesso basso livello della discussione in Senato ne è una chiara riprova). Può essere che la riforma incontri ostacoli nella sua applicazione, che non ci sia abbastanza forza innovatrice per impostare il nuovo Senato in modo che funzioni davvero, che non riesca ad imporsi come la sede dove le autonomie e lo Stato possono concordare le leggi che perseguono le politiche pubbliche comuni, che ciò non permetta di conseguenza di abbattere il contenzioso tra Regioni e Stato e di farci superare lo stallo attuale. Può essere che vada male. Ma la riforma apre la porta sul futuro, il suo fallimento la chiuderà per molti e molti anni. Non credo che ce lo possiamo permettere.

La riforma non risolverà da sola tutti i nostri problemi, ma è la premessa indispensabile a un migliore funzionamento del procedimento legislativo, della elaborazione delle politiche pubbliche, delle relazioni tra le istituzioni. Oggi il modo di produrre le leggi non consente di prevedere quanto tempo ci vorrà a varare il provvedimento: spesso anni, in un rimbalzo infinito tra una e l’altra camera, con il rischio che ad ogni passaggio (prima in commissione e poi in aula, prima in un ramo e poi nell’altro) il testo in discussione debba superare insidie e ricatti e vi si infili ogni genere di interesse corporativo. I testi diventano impossibili da capire e questo consegna il potere di “dire la legge” alle burocrazie e ai “tecnici” che popolano l’anticamera dei politici. Distinguere le funzioni delle due Camere elimina tutto questo: tempi prevedibili e responsabilità riconoscibili. È a questo che dobbiamo puntare, ma lo potremo fare solo se la riforma passerà.

Qui tutta l’intervista completa sul sito di Giustizia Penale.


Segnalato da:
Lorenzo Piazzi

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