Referendum Costituzionale – Valigia Blu

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Servire, non servirsi della Carta | Walter Tocci

C’è pieno accordo tra noi sull’esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
Si è fatto credere che il problema sia la velocità delle leggi, quando è evidente che sono troppe e vengono modificate vorticosamente. L’alluvione normativa soffoca le energie vitali del Paese. Si è drammatizzata la lungaggine della doppia navetta, ma riguarda solo il 3% dei provvedimenti. I più veloci sono anche i peggiori: il decreto Fornero convertito in quindici giorni viene revisionato ogni anno; le norme ad personam di Berlusconi furono come lampi in Parlamento, il Porcellum fu approvato in due mesi circa, ecc.. I tempi sono rapidi quando c’è la volontà politica, soprattutto se negativa.

Si, per fare buone leggi valeva la pena di riformare il bicameralismo. Era meglio eliminare il Senato, imponendo alla Camera maggioranze qualificate sulle leggi di garanzia costituzionale; oppure si poteva specializzare il Senato come camera di Alta legislazione, priva di fiducia, ma dedita alla produzione di Codici al fine di assicurare l’organicità, la sobrietà e la chiarezza delle norme. Erano soluzioni forse troppo semplici. Si è preferito invece un assetto tanto arzigogolato da pregiudicare perfino l’obiettivo della velocità.

Un Senato con poteri, ma senza autorità

È un bicameralismo abbondante, frammentario e conflittuale. Il Senato mantiene, seppure in modo contorto e controverso, molti poteri, ma perde l’autorevolezza, diventando il dopolavoro del ceto politico regionale, senza l’indirizzo politico né il simbolo di un’antica istituzione. Bisogna riconoscere che il primo testo del governo mostrava una certa coerenza cambiando anche il nome in Assemblea delle autonomie.

Poi è stato reinserito il nome Senato più per la nostalgia che per il rango. All’opposto del suo riferimento storico, infatti, è un’Assemblea dotata di potestas ma povera di auctoritas. In tali dosi la prima tende a superare i limiti e la seconda non basta a irrobustire la responsabilità. Il risultato sarà una conflittualità sulle attribuzioni delle leggi, affidata ai Presidenti delle Camere senza soluzione in caso di disaccordo.

Il contenzioso verrà alimentato da una pessima scrittura del testo. In certe parti assomiglia a un regolamento di condominio, è come uno scarabocchio sullo stile sobrio della Carta.

Servire, non servirsi della Carta

Che vinca il Si o il No, comunque è una revisione costituzionale senza futuro. Non può durare nel tempo perché è scritta solo dal governo attuale, non è frutto di un’intesa, anzi alimenta la discordia nazionale. Lo so bene che alcuni si sono sfilati per misere ragioni, ma dalla nostra parte non si è cercato sempre uno spirito costituzionale. Anzi, è prevalsa l’illusione che “spianare gli avversari” – come si dice oggi con lessico desolante – potesse rafforzare la leadership del PD.

Provo un senso di pena per chiunque motivi la revisione della Carta con la lotta alla Casta del Parlamento. La riduzione dei costi degli eletti c’è già stata e si può fare di più con le leggi ordinarie. Se invece si scomoda la Costituzione è solo per impressionare l’opinione pubblica. Il populismo di governo è tanto sguaiato quanto inefficace, perché non batte neppure l’originale grillino, come si è visto alle elezioni.

E racconta mezze verità. La riduzione del numero dei parlamentari c’è solo nel Senato che perde rango, ma non nella Camera che aumenta il potere. Eppure è proprio il numero dei deputati, in rapporto alla popolazione, è tra i più alti in Europa. I “rottamatori” non hanno avuto il coraggio di deliberare per una Camera più piccola, come invece seppero fare la destra nel 2005 e la sinistra nel 2007.

L’illusione della decisione imperativa

Con la scusa di riformare il bicameralismo, e con l’aggiunta dell’Italicum, in realtà si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. (…) La concentrazione del potere investe tutti gli aspetti dell’ordinamento: l’esecutivo domina il legislativo, la Camera prevale sul Senato, il premio di maggioranza non è compensato dai diritti della minoranza, i capilista si allontanano dal controllo degli elettori, i voti di chi vince valgono il doppio di quelli di chi perde, il capo di governo o comanda sulla Camera o ne chiede lo scioglimento, facendo pesare la legittimazione ottenuta nel ballottaggio. Infine, lo Stato ha la “supremazia” sulle Regioni.

Dopo l’ubriacatura del federalismo si “cambia verso”, tornando indietro al centralismo statale di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all’altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. A tal fine, la decisione più importante sarebbe la riduzione del numero delle Regioni, ma viene rinviata sine die. Quando la partita è difficile i riformatori muscolari gettano la palla in tribuna.

Da che cosa viene questa voglia smodata di concentrare il potere? Nei momenti di crisi è più facile cadere nelle illusioni. La più grande di tutte è che la complessità italiana possa essere risolta dalla decisione imperativa. Eppure essa è innaturale per il carattere nazionale, è antistorica per la Repubblica costituzionale, ed è anche inefficace per un’Amministrazione debole come la nostra.

L’ossessione di affidarsi a uno solo sembra una terapia e invece è la malattia. La fortuna del Paese è quando molti si danno la mano. Dal centralismo sono venute solo dissipazioni di risorse e ritardi storici. Le buone leggi si scrivono quando la politica non fa tutto da sola, ma aiuta la generatività sociale, ha fiducia nel Paese e ne viene ricambiata. I frutti migliori dello spirito italiano sono sempre venuti dalla molteplicità.

Da Eddyburg

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