Referendum Costituzionale – Valigia Blu

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Con la riforma entreremo nella “vera” seconda Repubblica | Michele Salvati

Se il referendum passerà entreremo in una «vera» Seconda Repubblica: avere così definito l’assetto politico in cui siamo entrati più vent’anni fa, dopo la riforma elettorale del 1993 e le elezioni del 1994, è stata una semplificazione giornalistica che non corrisponde alle ragioni per le quali i francesi distinguono in questo modo i diversi regimi repubblicani. Entreremo — anzi, cominceremo a entrare — nella Seconda Repubblica, perché l’adattamento alla svolta impressa dalla riforma non sarà breve: le transizioni, come gli esami, non finiscono mai.

Partiamo dall’origine. Storici e giuristi hanno ampiamente documentato come la Costituzione del 1948 sia frutto non solo di un compromesso tra orientamenti ideologico-culturali diversi (democristiano, socialista, liberale) ma di un problema politico allora dominante: come porre limiti e freni all’azione dell’esecutivo nel caso — non improbabile — che le elezioni venissero vinte dal Partito Comunista e dai suoi alleati. Anche grandi personalità costituenti, che avevano a cuore l’obiettivo dell’efficacia dell’azione di governo e riconoscevano l’importanza di una democrazia capace di decidere, dovettero rassegnarsi al fatto che la cortina di ferro — ne aveva appena parlato Churchill — attraversava il nostro Paese e bisognava imbrigliare quanto possibile un partito anti-sistema che avesse ottenuto una maggioranza elettorale.

Non era solo l’anomalo bicameralismo paritetico e indifferenziato a rendere faticoso il processo decisionale. Erano la stessa struttura del processo legislativo, i regolamenti parlamentari, la legge elettorale proporzionale a produrre effetti di rallentamento che solo una mediazione politica quasi consociativa era in grado di superare: di questa fu maestro il Partito comunista quando divenne chiaro che la sua estromissione dal governo, la conventio ad excludendum, era un dato di fondo della Prima Repubblica.

Insomma, la lentezza e l’incoerenza delle decisioni, la moltiplicazione dei poteri di veto, gli ostacoli frapposti a riforme promosse dal governo e non condivise dall’opposizione, erano caratteri emergenti del modello di democrazia della nostra carta costituzionale, ai quali il sistema dei partiti si adattò e sostenne. Adattandosi, produsse esiti indesiderati: il debito che abbiamo sulle spalle, l’inefficienza delle istituzioni, la fatica a riformare e a reagire a mutamenti esterni, derivano in larga misura dalla Prima Repubblica.

(…)

Dobbiamo andare avanti e migliorare le capacità decisionali della nostra democrazia – l’efficienza delle sue istituzioni, la competitività della sua economia, il rispetto delle sue leggi — quali che siano le idee politiche che professiamo.

Nelle intenzioni dei suoi estensori, questo è il fine della riforma costituzionale. Speriamo che alle intenzioni corrispondano i risultati, ma questo, se passa il referendum, lo vedremo tra molto tempo.

Da Il Corriere della Sera

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